Ad 80 anni dal secondo conflitto pensando alla pace

CENTRO – 10 giugno 1940 – 10 giugno 2020. Ricorrono oggi gli 80 anni dall’entrata in guerra dell’Italia nel Secondo conflitto mondiale. Nel settembre del 1939, quando Hitler invase la Polonia, dichiarando poi guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, Mussolini optò per la non belligeranza. Nove mesi più tardi, il Duce, visti i grandi successi dell’alleato e sotto la sollecitazione del Führer, decise di intervenire contro una Francia già in ginocchio e una Gran Bretagna che stava sopportando da sola tutto il peso del conflitto. La dichiarazione di guerra fu letta a Palazzo Chigi agli ambasciatori francese e britannico, François Poncet e Percy Loraine, il primo ribattendo che quella dichiarazione di guerra era come un colpo di pugnale a un uomo già a terra, e facendo anche notare che “i Tedeschi sono padroni duri, ve ne accorgerete anche voi”. Ma Mussolini aveva “bisogno di qualche migliaio di morti per poter(mi) sedere da ex-belligerante al tavolo delle trattative”, e così, di fronte alla folla di Piazza Venezia, mise al corrente il popolo italiano delle dichiarazioni di guerra. Con un’intervista allo storico trofarellese, il Professor Gianni Oliva, si vuole sottolineare l’importanza del ricordo, anche e soprattutto dei periodi più bui, quelli da cui dovremmo trarre le lezioni più importanti per il nostro presente.
Perché Mussolini cambiò idea rispetto a quanto aveva fatto a Settembre del 1939?
«Mussolini sa che né l’economia italiana, né le Forze Armate sono preparate al conflitto: resta neutrale nel settembre 1939 difronte all’invasione della Polonia e tergiversa nel maggio 1940 di fronte all’attacco alla Francia, convinto che i francesi avrebbero resistito a lungo. Decide l’intervento quando i Tedeschi stanno dilagando verso Parigi: una Germania che domina la Francia e, in prospettiva, l’Inghilterra relegherebbe l’Italia ad un ruolo marginale. Il Duce tenta l’azzardo di una campagna veloce che restituisce ruolo politico al regime e alla nazione, una guerra parallela, fatta quasi “in competizione” con l’alleato germanico».
È importante ricordare la guerra? Il ricordo contribuisce a preservare la pace?
«Ricordare la guerra (più in generale, ricordare il passato) dovrebbe preservare da errori analoghi. Questo è il senso della storia, da Erodoto e Tucidide in poi. Ma sappiamo bene che non è andata mai così: le generazioni dimenticano, le derive si ripetono».
Il pacifismo non basta: venti anni dopo il Primo conflitto mondiale ne scoppia un altro ancora più devastante. L’insegnamento che ne abbiamo tratto è che la pace la si costruisce con il diritto e le istituzioni (Costituzione Repubblicana; integrazione europea ecc). Oggi ci stiamo dimenticando del valore della pace? Chi è propenso sempre e solo a criticare le istituzioni, nazionali ed europee, chi usa Bruxelles come capro espiatorio, è consapevole del fatto che la pace esiste, non perché siamo più “civilizzati”, ma perché è stata pensata e costruita?
«Oggi mi sembra che si siano dimenticate molte cose: la politica rivela una grave difficoltà di proposta, e allora surroga con la critica a tappeto, comunque e sempre. La responsabilità è di chi fa politica solo tuonando, e, al pari, di chi vota seguendo il rumore dei tuoni. Quando impareremo a votare le “proposte” anziché le “denunce” avremo risolto metà dei problemi. Effettivamente, ci sono analogie tra gli anni Trenta e la nostra stagione. Tuttavia, la differenza grossa è la globalizzazione dell’economia: nel momento in cui gli interessi non sono più radicati entro i confini di uno stato, ma sono transnazionali, il pericolo di conflitti si riduce».
Esistono nella nostra società conflitti latenti, meno visibili dei conflitti armati ma altrettanto dannosi?
«Oggi le derive all’orizzonte non sono le guerre esterne, ma quelle interne: le discriminazioni, le differenze sociali, le demonizzazioni degli altri. Negli Usa le contraddizioni stanno esplodendo con le metropoli blindate e insanguinate. Non è compito degli storici fare previsioni sul futuro: certo è che in Italia la “tranquillità sociale” mi pare oggi fragile, appesa ad un nulla».


Davide Lucchetta

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