Da Trofarello all’Africa con Lulabù

Testimonianza: Gigliola Sartori appena tornata da Natì

CENTRO – Gigliola Sartori, Presidente dell’Associazione Lulabù, è appena tornata dal suo viaggio missionario in Africa.

Le abbiamo chiesto di raccontare la propria esperienza.

«Un’esperienza che inizia nel 2008, quando il 26 dicembre, seppur con ancora molti dubbi, parto per il Benin destinazione Natitingou, aggregandomi al gruppo10_15 Sartori all’ultimo momento. I timori sono tanti, mi pare un vero e proprio “salto nel buio” dell’Africa nera… ma non me la sento di deludere l’invito di un amico: “Il 3 gennaio riceverò l’ordinazione presbiterale e mi farebbe piacere che tu ci fossi…” mi scriveva il mio amico missionario – Sembra ieri, ma da allora ogni fine anno ritorno là, nella diocesi di Natitingou, mai da sola per ora, ma disposta ad esserlo. Ritorno ogni anno perché dopo due giorni dal mio primo arrivo a Nati, la sensazione di essere “a casa”, in un luogo e fra persone conosciute, è stata così forte che il desiderio di ritornare è scattato ancor prima di ripartire… – spiega la Sartori – Oggi come allora mi spinge l’amicizia, verso quel sacerdote e verso le persone che ho via via conosciute, verso i bambini che ho visto appena nati e ritrovo, grazie a Dio, ogni anno più grandi, verso quei luoghi che sono diventati un po’ alla volta la mia seconda casa. “La casa dell’amico non è mai così lontana”, dice un proverbio africano…e mi trova perfettamente d’accordo».

Faticoso il viaggio?

«L’accoglienza e lo spirito di condivisione valgono da soli le circa 34 ore del viaggio di andata e le 30 di quello di rientro, da casa a casa, Trofarello – Natitingou e viceversa, il cambio di abitudini alimentari, di vita, di contesti geografici e culturali, non sempre facili da comprendere e, talvolta, da condividere. A volte si vive in prima persona un certo atteggiamento di diffidenza: il “razzismo” al contrario fa bene, ci aiuta a comprendere che sentirsi diversi non è piacevole… Per fortuna, le persone superano pienamente questo atteggiamento non appena ti rivedono, ed improvvisamente (lo capisci da come ti permettono – ad esempio- di prendere in braccio i loro bimbi, di entrare in casa, dal fatto che ti offrono cibo e bevande…) sei “una di loro”…. Ogni soggiorno è diverso, perché diversi sono gli incontri, le necessità, a volte il luogo fisico in cui abito. Un’amica mi ha chiesto:«Si parte per dare, in realtà si riceve molto di più… vero?» Non sono d’accordo, non più almeno, con il senso di questa domanda che implica il fatto che chi si reca in questi luoghi lo faccia per dare… in realtà mi sento di dire, con grande tranquillità, che la molla che mi ha spinto la prima e le successive volte è solo l’amicizia che si esprime con la condivisione (anche di beni materiali, perché no?) la voglia di confrontarsi, la conoscenza reciproca di usi e costumi (ma questo si coltiva, alleva anche da voi???) , “davvero fa così freddo?”,…) la gioia di rincontrarsi».

Ma si ritrova con tante differenze culturali?

10_15 Sartori Gruppo«Non nego che la mia occidentalità fa spesso a pugni con una cultura così diversa, che, però, mi arricchisce molto e mi riporta sempre a considerare la persona, mi toglie dalla rigidità quotidiana, stimola la mia creatività ed elasticità quando, ad esempio, mi si chiede di preparare “qualcosina” di italiano da mangiare, in aggiunta ai cibi tipici, ma non mi si dice per quante persone… o meglio: saremo 7-8, si mangia alle 13… per poi scoprire che siamo in 15 e pranzare alle 15….

Lo so, sembra un esempio banale, fa ridere, ma… provate voi a vedere di colpo frantumate tutte le convenzioni, poi ne riparliamo… in Benin è così per tutto… appuntamenti di lavoro, programma di visite, orari dei pasti… tutto è teorico, quasi mai la teoria corrisponde alla realtà perché i ritmi di vita, la difficoltà negli spostamenti, gli intoppi hanno sempre la meglio sui propositi e ciò che si pensa di fare, non è mai ciò che realmente si fa… Ciò che invece mi sconvolge sempre sono il sistema sanitario e quello scolastico che vigono in Benin e con il quale dobbiamo (noi di Lulabù) fare i conti… Pochi giorni dopo il mio primo arrivo a Natitingou, dissi all’allora Vescovo, rispondendo ad una sua precisa domanda, che la popolazione mi sembrava molto povera, ma che non avevo visto miseria e sono ancora oggi di quel parere».

Ci parli delle condizioni economiche di questo paese.

«La popolazione della diocesi di Natitingou trova sempre, seppur non sempre completo nei nutrienti, il cibo sufficiente a sfamarsi, ma molto difficilmente ha i soldi per curarsi. In Benin, infatti, tutto è a pagamento: dalla semplice visita medica (la consultation) al ricovero in ospedale in seguito ad incidente o malattia grave. Tutto ciò è valido sia che si tratti di ospedale pubblico che di quello privato o cattolico, sebbene in quest’ultimo con richieste economicamente minori. La prassi comune di un ricovero è: il medico visita, ordina le medicine, il paziente o i suoi parenti le procurano e le consegnano al medico che le somministrerà al malato. Stessa procedura se trattasi di una semplice consultazione ambulatoriale: prima si paga la visita, poi si viene visitati, prima si pagano gli esami o medicine prescritte, poi si effettuano esami e si ritirano medicine… ecco perché i vari “guerisors” dei villaggi sono ancora molto consultati… spesso con perdita di tempo importante al fine della guarigione. Ogni anno, ed anche questo non ha fatto eccezione, mi sono trovata a vivere indirettamente e direttamente il dramma di persone conosciute che necessitavano di soldi per il ricovero del figlio ( 4 mesi, colera e malaria insieme), di un amico (incidente con frattura di tibia, trasportato in ospedale in auto dopo quasi 5 ore di pista…),…persone del vicino villaggio che chiedono a don Janvier la possibilità (i soldi, quindi) di farsi visitare perché “non passa proprio e sto sempre più male”,…e così via…

Altri problemi che ha riscontrato?

«L’altro grande problema è la formazione scolastica: la scuola pubblica offre gratuitamente la scuola elementare, dopo di che tutto è a pagamento, ed a pagamento assolutamente sproporzionato alle “entrate” dei pochi che svolgono una professione… In questo modo sono pochi i bambini che proseguono gli studi oltre alle elementari, e sono ancora pochi coloro che vanno a scuola al tempo dovuto (6 anni).
Lontananza dalla scuola (non tutti i villaggi ne sono provvisti), necessità di aiuto lavorativo delle famiglie che vivono di agricoltura ed allevamento di sussistenza, reticenza a mandare i figli a scuola da parte di alcune etnie, fanno sì che la scolarizzazione sia ancora troppo bassa. La Diocesi, da parte sua, ha costruito in ogni distretto parrocchiale scuole con internato, per favorire coloro che abitano lontano».

Senta Sartori ho sentito parlare dei bambini stregoni. Ne ha incontrati? Ci racconta cosa sono?

I così detti “bambini stregone”, riconosciuti nelle comunità di etnia “baribà” sono bambini che, a causa di una nascita non conforme a quella che viene considerata la normalità (i podalici, ad esempio, o coloro che nascendo “cadono” dal lato sbagliato…) vengono considerati portatori di guai per il villaggio intero. Fino a qualche anno fa venivano uccisi all’istante o abbandonati nella savana, ora vengono affidati ad appositi operatori pastorali che li portano in istituti d’accoglienza creati dalla Diocesi, dove vivono e crescono al sicuro. Sono queste le problematiche che non riesco proprio ad accettare come “normali” e che considero delle vere e proprie ingiustizie. Non so quante altre volte mi recherò a Natitingou, ma so che la mente ed il cuore hanno uno spazio che racchiude le sensazioni e le emozioni (in positivo ed in negativo) che vivo durante il mio mese africano…, so che, per quanto possibile, cercherò di aiutare gli amici e le persone sconosciute che vivono là, attraverso Lulabù, associazione che è nata proprio in seguito ai miei viaggi in quell’angolo d’Africa che è fra i più poveri di tutta la striscia sub-sahariana».

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