BENIN – I più la conoscono come animatrice instancabile dell’Associazione trofarellese Lulabù che in città raccoglie materiale, farmaci e denaro per sostenere progetti di solidarietà in Africa. Ma non tutti sanno che Gigliola Sartori, in arte Jija, come emerge dal suo profilo Facebook, è una missionaria nel vero senso della parola. Lei in Africa ci va tutti gli anni da qualche tempo e proprio in questi mesi si trova a Pehunco, nella parte nord-ovest del Benin. Città ha voluto intervistarla a migliaia di chilometri di distanza contattandola tramite WhatsApp. Gigliola è stata straordinaria e nell’arco di un paio di serate ha risposto a tutte le domande approfittando di una discreta connessione. «Sono arrivata in Benin il 28 dicembre sera. Dopo un giorno di permanenza a sud, dove si trova l’aeroporto, il 30 dicembre sera sono finalmente arrivata alla destinazione finale, cioè nel villaggio di Pehunco, diocesi di Natitingou a nord-ovest del Benin, dove “abito” attualmente». Quando pensa di rientrare? «Prevedo di rientrare in Italia entro la prima settimana di marzo e comunque solo dopo aver consegnato ai Centri che sosteniamo, medicinali ed abbigliamento, nonché biancheria, inviati tramite Container e giunti alla fine di gennaio». Come trascorre le sue giornate? «La mia giornata ordinaria si svolge in modo molto semplice: aiuto la cuoca della parrocchia che mi ospita, cerco di rendermi utile in piccoli lavori, mi relaziono con le persone che gravitano nell’ambito parrocchiale, vado al mercato, nei piccoli negozietti… insomma: nulla di straordinario.
Quando gli impegni parrocchiali di don Janvier lo permettono, ci rechiamo a Natitingou sui luoghi in cui Lulabù ha le attività legate al progetto agricoltura ed allevamento che sostiene la scolarizzazione di alcuni giovani diversamente impossibilitati a frequentare la scuola (dalla scuola media alle superiori). Il trasferimento fra le due “cittadine” non è semplice: 75 km e circa 3 ore di disagevole, nonché spettacolare, pista ci separano e questo fa sì che si debba passare almeno una notte “fuori casa”; in queste zone di savana non è assolutamente consigliato viaggiare con il buio..
In questo soggiorno l’occupazione principale è aiutare il lancio del bar-ristorante inaugurato il 13 dicembre con lo scopo di sostenere la scolarizzazione, ultimo tassello aggiunto alla “ferme” ed all’orto.
L’ équipe di questo ristorante è composta da due cuoche togolesi e da un giovane beninese che si occupa della gestione amministrativa in generale e delle bevande in particolare.
Il mio compito è insegnare loro ad utilizzare nel modo corretto frigoriferi, cucina e forno, oltre alla produzione ed alla conservazione della salsa di pomodoro, tecnica assolutamente sconosciuta in questi luoghi.
In questo periodo cercherò anche di insegnare loro a fare la pizza, seppur con ingredienti semplici e facilmente reperibili sul posto ed alcune semplici ricette con ortaggi locali, allo scopo di offrire qualche specialità diversa…
Poiché i locali amano i liquori come aperitivo, vedrò di produrre (ed insegnarne la ricetta) un po’ di “limoncello”, particolarmente apprezzato da chi ha potuto gustarlo.
Un’attenzione particolare va posta alla pulizia del locale e di tutto ciò che è vivo e attrezzatura varia: passare dal preparare i pasti in un contesto di case del villaggio (in terra e su terra, con cibo che non prevede la conservazione) ad un contesto “pubblico” non è né facile né immediato…
L’arrivo del container è stato importante anche per questo ristorante, poiché abbiamo portato piatti, bicchieri, tazze, posate, pentole professionali, salsa di pomodoro, olio, farina di grano ed altre piccoli attrezzi utili.
Tutto quanto sopra si sarebbe potuto acquistare anche qui, ma la qualità è scarsa ed il costo alto.
Si sta “lavorando” per essere autonomi anche nel cibo: alla ferme (fattoria) si stanno allevando gli animali per la produzione della carne e coltivando almeno alcuni cibi base per la ristorazione africana: mais, igname, arachidi, una specie di cicoria dal sapore molto simile ai nostri spinaci, carote e cavoli.
Vi sono ancora alcuni lavori importanti da terminare: l’impianto idrico, attraverso l’uso di pompa solare collegata al pozzo e che permetterà il riempimento della sovrastante cisterna e conseguentemente la distribuzione dell’acqua là dove serve, insieme ai bagni ad uso clienti sono due esempi fra i più urgenti.
Le altre importanti “occupazioni” di questo soggiorno saranno le visite ai Centri sostenuti da Lulabù (Maison de Béthanie, dispensario infermieristico e Seminario Minore a Natitingou, orfanotrofio ” Tabaaku” a Boukombé) sia per vericare l’utilizzo dei contributi inviati, che per conoscere la situazione dei bambini (specialmente i.nuovi arrivi) e le loro necessità, specialmente in materia di medicinali difficilmente reperibili sul posto.
Queste visite sono sempre molto gioiose. Baci ed abbracci non mancano mai. E la loro gioia è un grande dono per noi tutti». Ma da quando frequenta il Benin? «Sono arrivata per la prima volta in queste zone, nel dicembre del 2008, invitata da don Janvier alla sua ordinazione presbiterale del 3 gennaio 2009. Sono venuta con grandi timori, ma già dopo due giorni mi sentivo “a casa”. Tutte le mie paure (come farò se…, animali non proprio domestici sempre presenti, il terrore della malaria e di altre malattie da noi ormai vinte grazie ai vaccini) erano scomparse». Cosa l’ha portata lì e cosa la fa tornare in questi luoghi? «Un unico sentimento: l’amicizia, che è anche affetto per queste persone povere di tanti beni materiali, ma ricca di umanità, ricca del saper donare più ancora che dell’accettare i doni ricevuti a vario titolo.
Quest’anno, ad esempio, Lulabù ha donato alla chiesa di Pehunco, dove don Janvier è parroco dall’ottobre 2015, un nuovo sistema audio ed un Cristo crocifisso bronzeo… piccole attenzioni che rendono l’idea della fraternità.
Ci parla brevemente di Lulabù? «Lulabù è nata nel dicembre 2010, ma da quel primo viaggio, fatto per rispondere positivamente all’invito di un amico, sono ritornata ogni anno prolungando sempre più il.mio soggiorno, anche col crescere delle responsabilità legate appunto alla onlus.
Mi piace ricordare che il termine Lulabù è una parola lambà (etnia di don Janvier) che significa “amore” quindi amicizia, affetto, condivisione…ciò che cerco, e cerchiamo, di tenere sempre presente nel mio e nostro agire». Quali sono le emozioni che prova in questo tipo di servizio? «Non è facile parlare di emozioni; gioia, tristezza, rabbia, pace si mescolano, a volte le negative prevaricaricano le positive: come in un caleidoscopio, ogni vicenda umana crea un disegno emozionale sempre diverso. Alla sensazione di pace data da un vivere decisamente più a misura d’uomo, subentra spesso la rabbia che scaturisce dall’essere consapevole che qualsiasi aiuto noi si possa dare, questo non è che una piccola goccia nell’immenso oceano delle necessità. In ogni caso, al termine di ogni soggiorno, prevalgono le emozioni positive e la consapevolezza che ogni piccola goccia, per minima che sia, può davvero fare la differenza».