Un pugno di terra e pochi fiori secchi… tutto ciò che resta di mio fratello

Milo Bosa, soldato mai tornato dalla Russia – I fratelli Sergio e Nico lo hanno cercato per 50 anni

NicoBosa

Nico Bosa

VALLE SAUGLIO – Nico Bosa lo conoscono tutti in paese. E ancor più a Valle Sauglio dove vive con la sua famiglia dalla fine della guerra.
Una famiglia veneta trasferitasi in frazione dal 1947 da Salgareda in provincia di Treviso. È il nono di dieci fratelli.
Il 25 aprile ha partecipato alla commemorazione del settantesimo anniversario della Liberazione con una foto incorniciata di suo fratello Milo attaccata al collo ed un foglio che indicava la scritta: “Mandato a morire in Russia”.
È la storia dei tanti italiani mandati a combattere sul suolo straniero e mai più tornati.
«Avevo quattro anni quando mio fratello Milo partì militare di leva. Era il 1942. Venti giorni di Car alla caserma di Udine come Alpino nella compagnia Julia e poi in licenza a casa a salutare la famiglia in attesa di destinazione. Ricordo ancora quel giorno. Ricordo che mi lanciava in aria e mi riprendeva per farmi le coccole. Partì e per sei mesi non sapemmo nulla. Dopo sei mesi arrivò a casa una lettera con una piccola fotografia. La foto lo ritraeva in abiti da combattimento sul fronte russo. Fu l’ultima volta che avemmo notizie di Milo. Finì la guerra ma lui non tornò. Nel 1947 ci trasferimmo a Valle Sauglio con tutta la famiglia. Papà faceva il falegname ma la guerra ci aveva levato ogni possibilità di lavoro. Di Milo nessuna notizia e mamma spesso piangeva in camera sua sull’unica foto di un figlio mai tornato dal fronte e di cui non c’erano neanche le spoglie. Così il dubbio e la speranza che fosse ancora vivo era rimasto in fondo al cuore mia madre. Finalmente nel 1993 su nostra sollecitazione arriva una lettera di risposta dal Ministero della Difesa che conferma la morte di mio fratello Milo. Mia madre era morta già qualche anno prima, nel 1987. Aveva dato disposizione che le mettessero tra le mani la foto del figlio disperso. Il ministero della difesa ci diede anche le coordinate del luogo in cui giacevano, in una fossa comune, le spoglie di mio fratello Milo. Così nel 1994 siamo partiti per Mosca e dopo ore di aereo, altrettanti di treno ed auto, raggiungemmo il famigerato campo di concentramento numero 58, a 4 ore di sterrato da Tiomnikof e 400 chilometri da Mosca. Non c’era più nulla del campo. Solo un vecchio pozzo in legno testimoniava, in mezzo a quei boschi e sterpaglie, la presenza lontana di uomini condannati a morte. La guida russa cui ci eravamo affidati ci disse che Milo era morto come tutti gli italiani di fame e di freddo e poi era stato sepolto nella fossa comune che probabilmente aveva scavato egli stesso nella primavera precedente, quando il terreno non era troppo duro per essere scalfito dai badili. In quel momento io e mio fratello Sergio che era venuto con me, avemmo la percezione che di Milo non avremmo portato a casa nulla. Raccogliemmo un pugno di terra e dei fiori cresciuti sulla fossa comune di centinaia di italiani. Una zolla e dei fiori, ormai secchi, che custodisco gelosamente ancora adesso».

Roberto D’Uva

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